La lente del dolore
La lente del nostro cellulare è puntata su ciò che è fatto di carne, su ciò che sanguina.
Niente può più toccarci, conosciamo bene la morte.
Il mondo consuma le parole, logora la realtà, ci lascia inermi davanti al dolore.
Con un click ed una luce improvvisa, che potrebbe essere quella di una lampadina o quella del sole, una fotografia diventa la prova inconfutabile di un’ingiustizia, è la rappresentazione resa materia.
Rappresentare, “re-ad-praesentare”, rendere di nuovo presente: la fotografia e la morte sono state da sempre compagne inseparabili.
Dalle “fotografie postume” alla nascita del giornalismo di guerra come noi lo conosciamo, la macchina fotografica ha sempre avuto spazio tra le mani di molti e tra le pagine delle maggiori testate giornalistiche, tra la carne e la carta, perché immortalare la morte è da sempre stata sia un’ossessione che un dovere per l’uomo.
È il 5 settembre del 1936 ed un soldato sembra stia per spiccare il volo.
La schiena de “Il miliziano colpito a morte” di Robert Capa è inarcata mentre il proiettile gli entra nella carne, osserviamo come stia iniziando a cadere ma non abbia ancora toccato il suolo, sappiamo che non lo farà mai davanti ai nostri occhi.
La fotografia rende il momento eterno, cristallizza la vita così come la morte: il miliziano vivrà per sempre perché quello scatto è la rappresentazione di un eterno presente.
Osserviamo la sua composizione e analizziamo il contesto storico, elogiamo il fotografo e ci sorprendiamo davanti alla fortuna di Robert Capa.
Tra di noi e quel soldato però ci sono quasi novant’anni e un mondo completamente nuovo.
Gli avvenimenti atroci del nostro presente sono spesso incomunicabili perché niente sembra adatto a trasmettere quel groviglio caotico che è il mondo: dietro ai nostri cuori sconvolti c’è rabbia e frustrazione, davanti al nostro cellulare proviamo a dare un senso al dolore di cui siamo testimoni.
Ora, tra noi e quelle atrocità, ci sono una lente, uno schermo e migliaia di chilometri di distanza.
Stiamo facendo colazione e le nostre menti sono ancora annebbiate dal sonno.
Mentre beviamo il nostro caffè apriamo un’app e clicchiamo un cerchio colorato, curiosi di sapere che cosa hanno fatto i nostri amici la sera prima.
Guardiamo le foto di conoscenti felici, superiamo frustrati le pubblicità che ci separano dai contenuti che vogliamo vedere, ridiamo dei meme repostati dalle persone che seguiamo, e poi di colpo leggiamo ciò che è accaduto, vediamo il dolore della gente che lo ha vissuto, osserviamo la morte.
Non è completamente insensato sostenere che la violenza virale all’interno dei nostri telefoni renda tutti cose *.
I soggetti diventano oggetti dei nostri occhi bramosi, la fascinazione che il dolore trascina con sé non è qualcosa di nuovo nelle nostre vite di spettatori, non lo è mai stato.
Siamo cresciuti in un mondo che da sempre trabocca di immagini: foto di noi, foto di amici, foto di fotografie, tutto può essere catturato dalla lente dei nostri cellulari.
Persino la morte.
Tuttavia, ora possiamo vedere il sangue scorrere sui nostri schermi perché l’eterno momento della fotografia è diventato un flusso animato in cui è possibile osservare una persona mentre muore, ancora ed ancora.
L’esistenza di queste immagini e questi video non può essere criticata, nelle nostre mani abbiamo in tempo reale le prove delle ingiustizie che stanno accadendo nel mondo, qualcosa che anche solamente cinquant'anni fa sarebbe stato inimmaginabile.
La loro esistenza è indispensabile, come testimonianza, come ammonimento per il futuro; tuttavia, la loro viralità non lo è.
Siamo spettatori di tutta questa violenza e comunque continuiamo imperterriti a navigare l’algoritmo, a distaccarci da quella realtà, e questo comportamento privilegiato non è che una conseguenza logica alla nostra costante esposizione a questo tipo di contenuti.
La reiterazione di immagini violente sui social media non fa altro che togliere significato a ciò che vi è rappresentato, normalizza ciò che prima si credeva impossibile normalizzare.
I contenuti possono certo essere censurati e nascosti, ma l’algoritmo dei social è fallace, e spesso le immagini di dolore condivise appaiono davanti ai nostri occhi senza nessun avviso mentre la morte diventa solamente un’altra parte della nostra vita sul web.
Perché questi contenuti esistono? Forse per farci diventare delle persone migliori? Oppure per renderci coscienti di ciò che sta accadendo?
Osservare costantemente contenuti disturbanti non è un modo adeguato per sensibilizzarsi e sensibilizzare l’altro, ma al contrario immergersi così radicalmente nel dolore è solo un altro modo per allontanarci di più: ci avviciniamo, troppo, e per sopravvivere non possiamo fare altro che prendere ancora più le distanze.
Questo è umano ed è ciò che permette di vivere insieme alla sofferenza che ci circonda, ma è anche un meccanismo che deve essere riconosciuto e analizzato nella sua particolarità.
L’interesse ed il voyeurismo diventano un’unica cosa, e la volontà che ci spinge a cercare di più e ad informarci si anestetizza e desensibilizza.
Ciò che si potrebbe sostenere è forse che l’esistenza virale di questi video e queste foto possa permettere di rendere cosciente chi invece non lo è, di presentare la cruda realtà davanti gli occhi di chi ha deciso di ignorarla.
Dunque, è lecito chiedersi: è veramente necessario questo dolore reiterato e pervasivo per convincere qualcuno che quello che sta accadendo è veramente un’ingiustizia?
L’esperienza moderna per eccellenza è l’essere il voyeur di tutte le catastrofi che avvengono nel mondo.
Tuttavia, sui social, la lente del dolore che puntiamo verso gli altri è sempre priva di contesto e continuità informativa: immagini di persone morenti, bambini sofferenti, macerie e corpi maciullati, ripetizioni di dolore che paradossalmente tolgono peso a ciò che sta veramente accadendo.
La sofferenza diventa merce di scambio, si appiattisce e perde valore su delle piattaforme che semplicemente per loro natura non possono darglielo.
La soggettività nasconde sia il soggetto che le dinamiche dietro gli avvenimenti, ed a causa di questo viene presentata un’immagine priva di informazioni su una piattaforma piena di disinformazione che funziona insieme ad un algoritmo che premia solo la velocità ed i click.
Quello che noi vediamo sui nostri schermi è solo un frammento di una lente che deve però prima essere allargata.
Colui che prima ha deciso di non spendere il suo tempo preoccupandosi di quello che sta accadendo nel mondo ha già fatto la sua scelta, e la normalizzazione del dolore non farà altro che generare in lui persino più indifferenza.
Lo spettatore si è abituato alla carne ed alle lacrime, quando abbassa lo sguardo verso il proprio telefono la morte non gli raggela il sangue, è per lui solo un’altra immagine lontana.
Forse abbiamo bisogno di una nuova lente, qualcosa di più scomodo.
Forse non c’è una soluzione, e saremo costretti a convivere per sempre con questo costante fiume di sofferenza.
La maggior parte di noi spettatori non può immaginare che cosa significhi la guerra o che cosa sia veramente il dolore lacerante di chi vede la morte ogni giorno, non attraverso uno schermo, ma davanti ai propri occhi.
Osservare questi contenuti non ci permetterà di capire che cosa stanno provando quelle persone, al contrario, la violenza virale nei nostri cellulari non fa altro che mercificare il dolore e la sofferenza, sta rendendo degli esseri umani parte di un sistema in cui la loro esistenza inconsapevole genera dei profitti.
Ma loro non vivono solo dietro ad uno schermo, sono fatti di carne e sangue, e dolore, ed amore, ed una vita che viene riconosciuta solo nella morte.
Gli esseri umani non possono essere un mezzo, non possono essere usati.
Se veramente questi contenuti continueranno ad esistere nell’abisso che è il web dovremo dare senso, non alla morte ed alla sofferenza, ma alla vita, ed è per questo che non dovranno continuare ad esistere con la scusa di essere un mero mezzo di informazione.
Dobbiamo accettare che non si può capire, non si può immaginare, si deve solamente conoscere.
Si dovrà superare l’immagine stagnante di sofferenza che ci fa scostare lo sguardo e capire la ragione di quello che sta accadendo e che cosa, nel nostro piccolo mondo così privilegiato, si può fare per agire.
Ci si deve scostare dalla lente del dolore che ci separa da quello che è vero e guardare negli occhi la realtà.
Note:
* Susan Sontag, Regarding the Pain of Others, Picador, p. 13.