Identità di confine  

«Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione.»  

La luna e i falò, Cesare Pavese 

In foto: Momjan/Momiano, Istria

C’è una domanda che da molti anni a questa parte mi fa salire l’angoscia. Darle una risposta mi fa sentire quasi a disagio. Cerco sempre di togliermela di dosso come se fosse una briciola di pane rimasta sui vestiti. Potrà sembrare una reazione esagerata o irrazionale, ma vorrei cercare di far capire perché per alcune persone può essere difficile rispondere ad una domanda così ingenua.  

Di dove sei tu? 

Una domanda banale. Semplice. Una domanda di circostanza alla quale la maggior parte delle persone non dà alcun peso, o comunque le danno poco peso, decisamente meno di quanto gliene dia io. Eppure, per me, è una domanda che preferirei evitare. È una domanda che per molte persone come me, nate in una zona di confine con una storia complessa, fatta da tantissime sfaccettature culturali, linguistiche e politiche, è più difficile da rispondere di quanto sembri.  

Si va bene zì, ci stai facendo tutto ‘sto pippone, ma ancora non ci hai dato una risposta, quindi? 

Ecco, beh, solitamente la mia risposta varia in base alla persona che me lo chiede. Mi spiego meglio: generalmente rimango sul vago e dico “dalla Croazia” perché già entrare nello specifico e dire “vengo dall’Istria” o addirittura dire il nome del mio paesino di 200 anime in croce, a una persona che probabilmente non è delle zone limitrofe significa ben poco e di conseguenza richiederà ulteriori spiegazioni. Spiegazioni che poi entrano sempre di più nella complessità che si porta dietro nascere e crescere lì e a volte semplicemente non mi va di parlarne. Per questo forse evito l’uso di aggettivi di provenienza – etichette con dei marcati significati culturali – e preferisco strutture preposizionali che mi lasciano in quello spazio ambiguo nel quale mi sento sicura.   

La prima volta che ho veramente dovuto affrontare in modo serio questa cosa, che da quando sono adolescente mi fa venire una crisi esistenziale ogni qualche mese, era nell’estate del 2022, a Bovec, in Slovenia, dove ho partecipato alla Bovec Summer School. La Bovec Summer School, in breve, sono dei corsi universitari estivi organizzati dall’Università di Klagenfurt in collaborazione con altre università (tra cui anche l’Università di Trieste) che si svolgono nel piccolo villaggio alpino di Bovec (Plezzo in italiano), nell’alta Valle d’Isonzo in Slovenia, vicino al confine italiano e austriaco e sono mirati in particolar modo agli studenti universitari dell’area multinazionale Alpe Adria, che comprende l’Italia, la Slovenia, l’Austria e la Croazia.  

L’obiettivo principale di questi corsi è quello di promuovere e approfondire la conoscenza reciproca delle lingue, culture e vicende storico-economiche e sociali delle popolazioni delle zone confinanti nell’area Alpe Adria. Ogni anno vengono trattati diversi temi culturali, sociali e storici attraverso corsi, conferenze, seminari, workshop ed escursioni in natura tenuti in italiano, sloveno, tedesco, croato e friulano. L’anno in cui ho partecipato io il tema era quello della memoria condivisa.  

Nel corso delle due settimane trascorse lì ho dovuto spiegare svariatissime volte perché parlo tutte le lingue della Bovec Summer School – tranne il friulano – e così ho dovuto spiegare una complessità non solo in termini di albero genealogico, ma anche una complessità che riguarda la zona in cui sono nata e cresciuta. In tutto ciò ho sempre avuto difficoltà a dare un nome alla mia identità d’appartenenza nazionale. Almeno finché non ho partecipato ad un workshop con Martina Vocci, giornalista per TV Koper Capodistria, durante il quale abbiamo parlato proprio di appartenenza identitaria poliedrica e durante il quale mi sono emozionata, non poco, e forse ho capito quale sia.   

Un altro momento in cui ho affrontato di nuovo questa cosa era a settembre dell’anno scorso, a Roma, durante cinque giorni trascorsi con altri giovani come me, ma proprio come me – perché appunto, anche loro sono cresciuti bene o male nello stesso modo in cui sono cresciuta io, in una zona di confine con una certa complessità storica. Si trattava di un corso di formazione per la realizzazione di progetti culturali organizzata dall’Unione Italiana.  

L’Unione Italiana è “l’organizzazione unitaria, autonoma, democratica e pluralistica degli Italiani delle Repubbliche di Croazia e Slovenia, di cui esprime l’articolazione complessiva dei bisogni politici, economici, culturali e sociali. Finalità principali dell’Unione Italiana sono la salvaguardia e lo sviluppo dell'identità nazionale, culturale e linguistica degli appartenenti alla Comunità Nazionale Italiana, l’affermazione dei diritti specifici, il mantenimento dell'integrità e dell'indivisibilità, l'affermazione della soggettività nonché il conseguimento dell'uniformità di trattamento giuridico e costituzionale della Comunità Nazionale Italiana al più alto livello.” Questa organizzazione è riconosciuta come l’organizzazione rappresentativa della Comunità Nazionale Italiana in seguito al Trattato tra la Repubblica italiana e la Repubblica di Croazia concernente i diritti minoritari del 5 novembre 1996, ratificato dal Sabor croato e dal Parlamento italiano (per leggerne di più).  

Molti, infatti, forse non sanno, ma la minoranza italiana in Croazia e Slovenia, in particolare quella nella regione geografica che va da Muggia e comprende il litorale sloveno, la penisola istriana e Fiume, è una minoranza italiana autoctona. Autoctona nel senso che le persone che ne fanno parte non sono arrivate lì in seguito ad una migrazione, ma sono sempre state lì, semplicemente col tempo sono cambiati i confini nazionali, i documenti, a volte anche i cognomi. Ciò che non è cambiato è quel sentimento di appartenenza che ci accomuna. E finché si sta tra di noi non c’è alcun disagio, nessun dubbio esistenziale sulla propria identità.  

La mia prima lingua, quella che abbiamo sempre parlato a casa, è il dialetto istroveneto (che dal 17 settembre 2021 è entrato ufficialmente a far parte del Registro del patrimonio culturale immateriale della Repubblica di Croazia). Contemporaneamente ad esso ho imparato anche il croato, prima all’asilo e poi frequentando le scuole elementari, medie e superiori croate – perché da noi ci sono, appunto, anche le scuole della minoranza italiana. È stato proprio a scuola, in particolar modo alle superiori, che ho iniziato a confrontarmi più che mai con persone che la loro identità nazionale ce l’avevano ed era ben chiara: erano croate. Io invece mi sentivo in una sorta di limbo, a volte mi sento ancora così, né di qua, né di là, ma allo stesso tempo da entrambe le parti.  

Questa sensazione di limbo è ritornata quando mi sono trasferita a Trieste per l’università. Per i miei amici sono quella croata, anche se nel tempo hanno capito loro, così come io stessa, che preferisco essere quella istriana se proprio devo etichettarmi, perché in questo aggettivo forse meglio che in qualunque altro si racchiude tutta la complessità identitaria delle mie zone. Il disagio che sento, appunto, nasce dalla paura di doversi dare un’etichetta che non mi rappresenta a pieno, che toglie l’aspetto della complessità della mia identità e di conseguenza in parte mi obbliga a ignorare delle istanze storiche e culturali che si celano dietro ad essa.   

Se penso a casa, penso proprio all’Istria. Non sono mai stata una persona con tendenze nazionaliste e credo che il sentirsi istriani sia un sentimento che oltrepassa una dimensione prettamente nazionalistica o regionalistica. Per quanto ci siano dei movimenti e partiti politici regionalisti, per me essere istriani significa sentirsi di appartenere a questa terra, che nonostante i confini geografici (e in parte ancora anche fisici) non te li fa sentire nel momento in cui ti trovi con i tuoi connazionali, che siano nati in Croazia, Slovenia oppure in Italia. Significa evadere delle linee imposte da convenzioni, vivere un’identità che prende le distanze da etichette di un certo tipo, che non si fa racchiudere nella semplicità.  

Non a caso, il primo gennaio del 2024, moltissime persone istriane si sono trovate da entrambi i lati del confine di Dragonja per festeggiare non solo l’inizio dell’anno nuovo, ma anche l’entrata della Croazia nell’area Schengen – un evento significativo per moltissimi istriani che dopo ben più di tre decenni hanno visto la propria regione libera da confini. Per far capire meglio la portata di questo momento dirò solo che per la prima volta nella mia vita sono potuta andare nel paesino in Slovenia dov’è nata mia nonna materna, a pochi chilometri da casa mia in Croazia, senza fare una trentina di chilometri per attraversare i valichi di confine ufficiali. Fino a quel punto, l’attraversamento di “confini piccoli”, come quello che ho varcato una volta alzate le sbarre di tutti i confini per raggiungere i luoghi dei miei avi, era permesso solo a un numero ristretto di persone per motivi ben definiti.  

La mia è un’identità di confine. È un’identità complessa, a volte complicata, spesso ingarbugliata. Forse, in parte, il motivo per cui è difficile da affrontare è anche perché alla fin fine io sono legata alla mia terra, ma purtroppo in essa vedo poche prospettive per il futuro che mi immagino per me stessa. E quindi devo venire a patti con questo fatto, di doverla lasciare. La mia è un’identità che probabilmente può essere capita a pieno solo se vissuta – anche in forme analoghe su altri confini. Ma per quanto a volte possa risultare difficile da spiegare o definire, la mia identità è una parte di me che ancor prima che me ne rendessi conto mi ha insegnato la tolleranza e la curiosità nei confronti dell’altro, del diverso, e per questo non posso che essere grata.  

Ma quindi, di dove sei? 

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La lente del dolore  

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Di teatro, ma prima di tutto di dignità.