Di teatro, ma prima di tutto di dignità.

Un racconto che racconta di uno spettacolo che parte da lontano, che forse non racconta nemmeno di uno spettacolo. Prima di tutto, si tratta della storia di una rivendicazione di dignità.

“Il Capitale, un libro che ancora non abbiamo letto” è l’ultimo spettacolo della compagnia bolognese Kepler-452, che da due anni porta in sala il Collettivo di fabbrica GKN e la loro storia, per un teatro nuovamente politico, nuovamente vicino alle rivendicazioni attuali. Uno spettacolo, un racconto, che parla anche a chi non lo ha visto, anche a chi il Capitale non lo ha letto, forse a maggior ragione.

Prima locandina dello spettacolo, 2021. Foto Luca Del Pia

Gkn, Campi Bisenzio, festival di letteratura working class, 2021. Foto dell’autrice.

Ventiquattro febbraio, Teatro CSS di Udine.

Immaginate di star andando a teatro. Niente di nuovo, un’architettura canonica, solitamente di forma semi-circolare, di bell’aspetto, in centro città, con gli interni caldi, la moquette rossa e quell’inspiegabile odore di legno che si ripete sempre allo stesso modo.  

Immaginate, ora, di star andando a teatro a vedere un bello spettacolo. A cosa pensate? Che cosa vi aspettate da uno spettacolo bello? Costumi di scena? Luci soffuse? Attori di bell’aspetto? Grandi cantanti? 

Il nove del luglio del duemilaventuno era un venerdì. Era molto presto la mattina quando ho scoperto che, di quel giorno, se ne sarebbe parlato a lungo anche in seguito. Quando ho capito che quel giorno avrebbe segnato uno spartiacque per me, che ero una adolescente toscana alle prese con la fine del liceo e l’inizio di una nuova vita, e per tutto il paese. 

Quel nove luglio veniva occupata una fabbrica poco lontano da dove vivevo, a Campi Bisenzio, tra Prato e Firenze, della cui esistenza non ero a conoscenza. Non sapevo cosa fabbricassero, come si chiamassero, come fossero fatti gli operai delle fabbriche. Non sapevo nulla di nulla di come funzionasse una fabbrica e quella possibilità che mi veniva negata- o che mi negavo- di immaginarmi quelle vite, quei luoghi, mi gettava in un profondo stato di disagio che voleva farmi fuggire via lontano quando, quel nove luglio, mi ci ritrovai davanti.  

Ancora non lo sapevo, allora non sapevo ancora molte cose, però, a partire da quel nove luglio, cominciai ad incamminarmi dalla fabbrica in via Fratelli Cervi di Campi Bisenzio per arrivare, il ventiquattro del febbraio del duemilaventiquattro alle otto e mezza della sera, in via Ermes di Colloredo, Udine, Friuli-Venezia Giulia, per andare a teatro. 

 

Immaginatevi, ora, un paio di emiliani. Uno attore e uno drammaturgo, si recano da tre toscani, tre operai metalmeccanici- da poco tre disoccupati- a cui chiedono di fare uno spettacolo. Gli attori lo chiedono agli operai. E mentre gli operai imparano a fare gli attori, gli attori vorrebbero imparare un po’ a fare gli operai.  

Nonostante la paradossalità delle circostanze, è così che è andata: nella calda estate appena trascorsa, i Kepler 452, Nicola Borghesi ed Enrico Baraldi, si trovano fuori dallo stabile bianco e rettangolare di via dei fratelli Cervi con un sacco a pelo sottobraccio, pronti a trascorrere dentro la fabbrica le successive settimane, per scrivere, per manifestare, per occupare, per fare teatro.  

Gli operai non capiscono: questi arrivano da Bologna, fanno gli attori- chi li ha mai visti- vogliono dormire con noi e farci delle domande? Accettano. Questo è il battesimo, il patto è che gli attori emiliani entrano, ma come “quelli della digos”. 

Un teatro, non uno qualunque, un teatro di innovazione, poco fuori dal centro storico, di sabato sera. Siamo in Friuli, e di teatri di innovazione e ricerca ce n’è solo uno e grazie al cielo se c’è. 

Sabato ventiquattro febbraio duemilaventiquattro, gremito di una fauna umana di qualsiasi tipo, mi viene il dubbio d’aver sbagliato orario: che davvero ci siano così tante persone interessate allo spettacolo che sto andando vedere, mi stranisce, m’incuriosisce, mi fa riflettere. 

 

Io alla GKN ci andai per la prima volta in bicicletta. Erano le cinque del mattino ed io ero a un festival di fotografia dentro il cortile di un castello in centro città, a Prato. Stavo guardando un film in bianco e nero senza capirci granché, bevendo qualcosa di alcolico e aspettando, senza troppe aspettative, che finisse la serata e, con lei, la settimana.  

Qualche ora dopo mi ritrovo invece scomodamente seduta sul sellino della mia bicicletta da città col cestino in vimini e tutto il resto, all’alba, sudata, spettinata e con ancora i vestiti del festival, inseguendo la mia amica tra le arrischiate piste ciclabili che collegano la mia città a Campi Bisenzio. 

Alle nove iniziava il corteo, e noi non avevamo più tempo.  

 

Estate duemilaventuno, la fabbrica GKN Driveline Firenze, ex stabilimento Fiat di Firenze (Campi Bisenzio- FI), annuncia la chiusura e dà ferie collettive ai suoi dipendenti. Il nove luglio, i quattrocentoventidue operai metalmeccanici impiegati nella GKN di Campi vengono licenziati via e-mail. 

Ha inizio la procedura processuale presso il tribunale di Firenze. Si parla di articolo 28, di procedura antisindacale, di diritto al lavoro, ci sono dentro il segretario nazionale Fiom e la rappresentanza dell’area “politiche industriali” della Cgil nazionale. Intervengono i presidenti dei partiti nazionali, il presidente di regione. 

Nove di luglio duemilaventuno. A Firenze, a Campi Bisenzio, in via fratelli Cervi, quel nove di luglio, alle nove di mattina, siamo ventimila. 

Quel nove luglio non me lo scorderò mai. Avevo paura, avevo già partecipato ad altri cortei, certo, ma quello era diverso, ed anche lì, osservando la fauna eterogenea di astanti, ricordo d’essermi chiesta se fossi nel posto giusto, e se, in realtà, quel sentimento di paura, di fragilità, di rabbia mista a confusione, non fosse forse l’unico modo giusto di stare lì, davanti a una fabbrica occupata e al suo nuovo Collettivo di Fabbrica urlante e scalpitante, che non si sarebbe sciolto più, mai più. 

Io, da quel giorno, cominciai lentamente, inconsapevolmente, ad incamminarmi per andare a teatro. 

 

La scenografia è curatissima e non so perché la cosa mi colpisce: come se uno spettacolo di teatro contemporaneo non avesse bisogno della velleità scenografica, forse perché per uno spettacolo di teatro che parla di critica sociale, la scenografia mi pare un fiocchetto quasi irriverente. E invece c’è tutto, anche la macchina per il fumo, anche uno specchio parabolico convesso, in alto, attaccato a un’impalcatura di metallo, anche un lettino per distendersi, e poi due megafoni, a un certo punto un cesso, un carrellino per le pulizie, due bacchette, quelle per suonare la batteria, ed oggetti metallici che non so nominare, quei tipici oggetti metallici prodotti da quella tipica catena di operai che lavora in quelle tipiche fabbriche dei distretti industriali fuori città. 

Dario Salvetti apre e chiude lo spettacolo, da solo, solo con un megafono che lambisce come fosse un flauto dolce, quasi fosse ormai assuefatto dal suono della sua voce amplificata, tante volte l’ha sentita, anche se ora siamo a teatro, e non in corteo, anche se ora non c’è bisogno d’alzare la voce, ora che il pubblico che ha davanti è ordinatamente seduto ed in silenzio, ma fa niente: è quello il Dario Salvetti delegato sindacale e portavoce del Collettivo di fabbrica che tutti ci immaginiamo quando pensiamo a Dario Salvetti.  

Apre con un discorso di indignazione che è quello che li ha resi imperituri ed universali, che li ha connessi con tante altre lotte ad essa vicine. Dario Salvetti ci chiede come stiamo, ché lui, loro, sa e sanno bene come stanno, ma il punto è che per ogni operaio che è ben consapevole della propria condizione lavorativa e sociale, ci sono altre dieci persone sedute lì, in sala, sedute lì, a fargli interviste, a chiedergli di fare uno spettacolo insieme, che non sono altrettanto consapevoli della precarietà delle proprie condizioni di lavoro, o forse, anche se lo sono, consapevoli, dico, non sono altrettanto disposte a lottare per questo. Che in quindici anni, governo dopo governo, misura dopo misura, troppe persone hanno detto di sì, non si sono ribellate, e lentamente cinque milioni di persone sono scese sotto la soglia della povertà assoluta. 

Un discorso di indignazione che vuole ripartire proprio da quella dignità negata su cui spesso non ci fermiamo a riflettere, forse perché ci è stato insegnato che va bene così. Forse perché se ci fermassimo tutti un attimo a riflettere, ci renderemmo conto che dietro a questo specchio d’acqua traslucido che è la normalità, si celano abissi che vanno molto più in profondità e che ci spingerebbero verso luoghi della nostra coscienza che forse non abbiamo sempre voglia di conoscere; luoghi in cui “contratti di lavoro a tempo indeterminato” non è una promessa ma solo parole vuote e vane. Luoghi in cui desiderare un futuro migliore fuori da una logica di profitto riacquista il ruolo predominante, prima della preoccupazione di dover trovare un lavoro con cui potersi pagare l’affitto. Luoghi in cui la parola “felicità” si emancipa e riprende il suo ruolo predominante nella vita di tutti i giorni, anche se questa cosa ora ci spaventa, perché per arrivare a questo è necessario lottare; e lottare significa cercare dentro di sé degli ideali, una forza e anche un po’ di fiducia verso il prossimo e verso il futuro che recentemente, di questi tempi, ci è stata insegnata poco, e male. 

 

“Questo vuol dire che se la nostra lotta perde, tutto il mondo del lavoro fa un ulteriore passo indietro. Contemporaneamente, noi abbiamo messo a disposizione questa lotta per il miglioramento delle condizioni di vita di tutti. Solo se la lotta è di tutte e per tutti riesce effettivamente ad essere duratura, effettiva, ed in grado di cambiare i rapporti di forza intorno a sé.”  

E ci vuole coraggio, e ci vuole forza, e ci vuole umiltà, per fare quello che ha fatto il Collettivo di fabbrica della GKN, ossia ripartire da una famiglia allargata, ripartire da un discorso collettivo, anche se riesce, nella sua intimità, ci riesce, a rimanere personalissimo.  

Un’altra cosa che mi ha colpito è stato il linguaggio, silenziosamente presente come un monito dietro le teste di tutti, durante il corso di tutto lo spettacolo. Un testo teatrale nasce per essere recitato, per essere letto ad alta voce, per essere ascoltato, ma come fare quando si esce da questi schemi? Il testo da cui prendeva forma lo spettacolo non era un Amleto, una Locandiera, ma si intitolava Il Capitale. E per quanto Marx fosse riuscito ad essere anche teatrale nel suo modo di scrivere, quel libro lì non si può definire un tipico testo che dopo l’Accademia un attore desidererebbe interpretare. 

Il Capitale è un libro difficile, dicono, un libro che in realtà sono tre e che non si è capito bene se parli di economia, di politica, di filosofia, di storia, di sociologia, se sia un testo scientifico o militante. 

Il Capitale è un libro che ancora non abbiamo letto, e anche se lo avessimo letto, non lo avremmo capito; e anche se lo avessimo capito, non sapremmo cosa farci: e anche se sapessimo cosa farci, non avremmo il modo di farlo, ché quello che ci manca è il tempo, ché non sappiamo dove andare o cosa farci con questa consapevolezza che fa a botte con un mondo violento. 

Il Capitale è un libro che ancora non ho letto, ma che ora mi ritrovo ad ascoltare, per la prima volta, comodamente seduta su una poltroncina in penultima fila al CSS di innovazione del Friuli Venezia Giulia. 

Il Capitale non lo hanno letto nemmeno Iorio, Tiziana e Felice, che su quel palco camminano e parlano, e nonostante la difficoltà delle premesse, ascoltarli parlare delle loro vite, raccontare gli aneddoti sulla fabbrica, raccogliere dati sui cortei, sul denaro non investito, sul numero di operai licenziati, i nomi degli operai morti dopo l’occupazione, i numeri di matricola, è cosa facilissima da fare, e anche da immaginare. 

Parlano toscano, sono tutti e tre nati e discendenti di quelle terre, e ne parlano come si potrebbe parlare di un fratello minore: grevemente consapevoli di averci tra le mani un rapporto fittizio e costruito, costretto da un obbligo familiare, ma col quale lentamente si entra in intimità, ed in cui ognuno trova il proprio modo di stare.  

 

L’attenzione va ai particolari, da sempre: dalle bacchette della batteria che Felice Ieraci, metalmeccanico per professione e batterista nel tempo libero (per ora, batterista), suona sui bauli, sui tamburi, durante i cortei e durante le ore di lavoro; ai nomi tecnici che ogni oggetto possiede; dal soprannome che ogni operaio ha, al caffè a cinquanta centesimi del bar del Collettivo di Fabbrica, al sugo di pecora brandizzato “Insorgiamo” che si mangia a mensa.  

Nicola Borghesi, operatore dello spettacolo, attore, su quel palco, quella sera, dice che se un giorno le cose cambieranno in peggio e la fabbrica non resisterà più, lo capirà perché nei bagni pulitissimi della GKN non troverà più i rotoli di carta nei porta-carta per le mani.  

È un discorso di cura, un’unica, grande coraggiosa decisione di prendersi cura di chi quella fabbrica la ha costruita, la ha attraversata, di chi ci è arrivato da esterno, di chi non ci è mai arrivato ma si ritrova gettato in questo disumano mondo del lavoro, di chi sta cercando di cambiare le cose, anche a partire da quei rotoli di carta sempre presenti nel porta-carta fuori dai bagni sempre puliti della GKN, ché la dignità passa anche da lì, ed è importante preservarla in ogni suo angolo.  

 

Dario Salvetti ritorna sul palco dopo un’ora e mezzo dal suo primo e ultimo intervento, e chissà quanti ancora gliene restano. Per ora, ci saluta, un po’ come un padre sulla soglia di casa, cercando di trovare delle parole che possano accompagnarci anche in sua assenza. Ci dice che per provare a non morire soli e poter vivere dicendo d’aver vissuto, bisogna trovarsi degli amici, e che spesso gli amici non bastano, che serve che siano compagni, di cosa non si sa, di viaggio, ho pensato, che vuol dire tutto e forse non vuol dire nulla ma che più ci penso e più mi convinco, alla fine.  

 

Trentuno dicembre duemilaventitré, non sono ancora arrivata a teatro, ci sto andando. È ancora presto per quello. Dario Salvetti è ancora in piedi, su un palco, con un megafono in mano, i soliti occhialini e la solita felpa col cappuccio tirato sopra quella faccia preoccupata. Piove. Sono fuori dalla GKN dopo la vittoria dell’ultimo ricorso che li aveva messi sull’orlo del baratro, con qualcosa di alcolico in mano, mentre aspetto di dover lottare per il futuro di quel collettivo, mentre aspetto la mezzanotte o forse solo che la settimana finisca. Stavolta non sono sola, siamo in cinquemila, e come buoni compagni di viaggio, facciamo l’unica cosa che ci riesce fare: iniziare a camminare. 

È mezzanotte, il cielo si riempie di fuochi d’artificio, e in via fratelli Cervi cinquemila persone da tutta Italia si ritrovano per non fare altro se non camminare, insieme, in corteo, per chiedere qualcosa di diverso, qualcuno, forse, per andare a teatro. 

Ventiquattro febbraio duemilaventiquattro, io non lo so che spettacolo vi siate immaginati quando avete pensato a un “bello spettacolo a teatro”, ma questo, Il Capitale, un libro che ancora non abbiamo letto, scritto dalla compagnia Kepler-452, prodotto da ERT Teatri Emilia Romagna, penso sia stato forse il più lungo, realistico, soddisfacente, sincero spettacolo che di teatro ha molto e nulla. 

E stare fuori da quel teatro, quella sera, è stato un po’ come stare fuori dallo stabile, in via dei fratelli Cervi, ad aspettare di trovare l’alba dentro l’imbrunire. 

Nicola Borghesi ed Enrico Baraldi; Kepler-452

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