Perché sono importanti i giorni di festa
Di svarioni, di campane annunciatrici la rivoluzione, di feste e di cortei (del primo maggio, ma tanto vale per tutti quanti)
Oggi è il primo maggio. Sono le 8:51 e alle 9:00 inizia il corteo tradizionale per ricordare i diritti raggiunti dai lavoratori dopo il 1887 e per continuare a chiederne il riscatto.
Verso le 8:45 suonano le campane della chiesa di San Giacomo, storico rione autarchico di Trieste, da dove, da sempre, partono i cortei più schierati. In piazza ancora pochi passanti. Chi porta fuori il cane, chi passeggia ancora assopito, con le mani in tasca e un compagno di chiacchiere triestine, chi comincia ad arrivare con qualche bandiera, un venditore di rose stanco, seduto sulla panchina, ed intere camionette di poliziotti visibilmente confusi, o forse sono solo io che non riesco ad immaginarmeli diversamente.
Alle 8:45 suonano le campane della chiesa ed io un po’ mi emoziono. Mi succede solo per le feste che dentro e fuori di me celebro felice ed in compagnia, come per il venticinque aprile o il due giugno, perché so di essere circondata da persone che riconoscono il peso di quelle lotte, che riconoscono il colore che questi giorni usano per colorarsi sul calendario, che si riconoscono a loro volta parte di una collettività politica, prima di tutto, e poi studentesca, culturale, ma anche amicale.
Mentre me ne sto seduta su una panchina di piazza San Giacomo, come tutti i presenti, mi faccio attraversare dal suono delle campane, che in qualche modo attivano una certa attenzione in tutti quanti. Forse per la loro presenza; forse per il suono che rimanda a tempi passati; forse perché, anche se queste suonano solo per l’imminenza della messa, a me balena per la testa, per un secondo, l’immagine di campane annunciatrici della rivoluzione, rivolte in corso, celebrazioni pacifiche; campane che inaugurano, col loro suono, l’inizio di un giorno che ha da cambiare le sorti di tutti e di tutti i giorni futuri, un giorno che vuole vedere il sol dell’avvenire, l’alba dentro l’imbrunire.
Palesemente mi perdo nei miei pensieri. Si succedono nel mio cervello immagini di una piazza gremita da suonatori di trombe, di tamburi, cori di voci forti e unite, bandiere al vento, braccia alzate, luce chiara e alta, uomini, donne, bambini di ogni provenienza ed estrazione che arrivano rincorrendo un ideale.
Poi ritorno con i piedi per terra, e oltre a rendermi conto di non aver recepito una sola parola delle ultime tre pagine del libro che sto leggendo, seduta sulla panchina di San Giacomo, mi vien da pensare anche a quanto sia importante dedicarsi alla celebrazione, alla festa, alla protesta. E che sia una protesta a partire dalla rivendicazione di tempo.
Persa nei miei pensieri, pensavo che sarebbe proprio bella la rivoluzione, ma che allo stesso tempo, ad oggi, ci fa proprio fatica farla, la rivoluzione, e prima ancora che fisicamente, ci fa fatica immaginarla. Ché ne avremmo tutti bisogno, ché tutti ci speriamo quando, ad esempio, sentiamo i rintocchi delle campane fuori dalle ore tonde, sperando che indichino finalmente l’imminenza del cambiamento, avvertano la grandiosità di un tempo finalmente diverso, lento. Ché ognuno di noi ci pensa un po’, soprattutto il primo di maggio, soprattutto il venticinque di aprile o il due di giugno. Quando lotte passate danno spazio a lotte presenti, che si allineano a quel fervore che spinse qualcuno prima di noi, rivendicare diritti, scendere in piazza, con le campane, per fare la rivoluzione.
Oggi, pensavo, la prima cosa che dovremmo provare a fare è prenderci del tempo, questo tempo, questo giorno, per riflettere. Per farlo però abbiamo bisogno di tempo, e di tempo non ne abbiamo mai per riflettere, per fermarci ed immaginare.
Viviamo in un’epoca di impoverimento culturale perché per produrre cultura ci vuole benessere, e per avere benessere ci vuole stabilità, e per avere stabilità ci vuole denaro, e per avere denaro non ci possiamo permettere di fermarci a fare cose improduttive come le feste e le celebrazioni.
Eppure, forse, proprio per questo, prendersi del tempo per riflettere, per produrre cultura, per imparare poesie a memoria, per imparare le canzoni partigiane, per scriverne di nuove che raccontino la nostra storia, è l’atto più politico che possiamo scegliere di fare; atto politico perché cerca di andare controsenso, cerca di combattere la volontà che questa politica ci impone, per riappropriarci di quella dignità che spesso siamo disposti a piegare e nascondere. Quella dignità per cui qualcuno prima di noi lottò, perché disposto a fermarsi, a prendere del tempo per riflettere, per capire che c’era qualcosa, dentro questo sistema, che non andava più bene.
Ci pieghiamo e ci nascondiamo per poterci vendere meglio, dimenticandoci però che non siamo fatti per vivere di spigoli
Viviamo in un paese in cui la cultura viene annichilita a debole espediente retorico di certi intellettuali, parole svuotate per libri di testo delle scuole, lontane promesse di un paese che non esiste più, passivo strumento di propaganda; eppure è forse proprio dal timore per una cultura attiva- produttrice di menti critiche, di testi cangianti ed evanescenti, strumento di aggregazione e di lotta- che spinge l’attuale maggioranza politica ad ignorarla, non voler conoscere, forse a temerla, ad averne paura.
È facile scivolare in questa trappola, è facile scivolare e basta. Lasciarsi cadere, lasciarsi andare, continuare a camminare. Fermarsi è complicato, fermarsi a riflettere complicatissimo. Tentare di fermarsi- o di far fermare- usando le parole ancora più difficile.
Per questo queste campane, questa mattina, mi fanno male. Ché le canzoni partigiane non le conosco tutte, ché mi manca una parte di conoscenza storica e mi manca anche il coraggio di passare un pomeriggio a pensare di scriverne una mia, di canzone, di storia; ché sogno la rivoluzione ma quando torno con i piedi per terra ho paura di guardare in faccia questo mondo cieco e sordo che non sente il suono di questo tempo che accelera e che non ne è preoccupato quanto lo sono io.
Per questo queste campane mi fanno male, perché mi costano una gran fatica.
Per questo, mentre ascolto queste campane e guardo i poliziotti al lavoro, obbedienti e organizzati durante il giorno della Festa dei Lavoratori, penso all’importanza di starmene seduta qui. Apprezzare questo tempo che avanza, sentirlo scorrere, vederlo, amarlo. Provare a uscire da questa preoccupazione che ci attanaglia e ci spinge sempre avanti, verso dove non si sa, ed usarmi ed usare questo tempo, questo giorno, per immaginare.
È difficile, lo sarà anche domani, e dopo domani, e così ancora, ma da qualche parte bisognerà pur iniziare.