Sta a te, d’estate

Le giornate si allungano, troppo, ed i raggi del sole illuminano anche ciò che dovrebbe essere nascosto.
L’orizzonte è la fine del mondo, è l’inizio del cielo.

Foto dell'autrice

Sono una bambina di sette anni, ed è estate. 
Sono (immancabilmente) in Liguria, e (immancabilmente) mi ritrovo ad addentare una focaccia mentre (immancabilmente) fuggo da una lite familiare. Non so che giorno sia ed in realtà non mi importa neppure saperlo, sicuramente una giornata assolata tra il 12 giugno ed il 7 settembre, una di quelle finestre luminose aperte su una vita un poco più semplice, un poco più serena. Il sole è alto nel cielo e riesco ancora a sentire la salsedine sulle labbra, o forse è il sale della mia focaccia, insomma, nulla è veramente importante. 
La realtà è che mi manca quella sensazione: quella della libertà totale e gioiosa che esiste perché so che nulla, veramente nulla, è importante. Ripenso al presente che è stato, il passato. Quando entravo in mare con i miei braccioli verde fluo sentivo i miei genitori urlarmi di non allontanarmi, di rimanere a riva, di stare attenta! Eppure a me stare a riva non piaceva, quindi iniziavo ribelle ad annaspare verso quella linea che sembrava così nitida e così vicina, quel punto così peculiare in cui il cielo incontra il mare: blu, azzurre, a volte grigie, quelle erano per me le sfumature dell’inarrivabile, della fine del mondo. 
Le amavo.  
Quindi nuotavo, nuotavo, nuotavo e sentivo il sole contro il viso ed il vento salato sulla lingua, poi mi giravo. Vedevo la terraferma ma dalla prospettiva di chi ne è lontano, volevo galleggiare nel nulla, nel tutto, non sentire la terra sotto i piedi, e forse era anche quella libertà. Per un istante ero parte dell’orizzonte, un punto indistinto tra mille altri punti indistinti. Poi arrivava l’inquietudine. Il mare davanti a me era immenso, più di quel che mi immaginassi, e di colpo mi rendevo conto di come sarebbe stato impossibile per me continuare a nuotare. Sarei dovuta tornare a riva dai miei genitori che sicuramente mi avrebbero fatto una ramanzina, dai bambini che avrebbero continuato a urlarmi nelle orecchie, avrei dovuto nuotare verso la tanto odiata terraferma. Ma ero una bambina, ed era estate, e davanti a me c’erano altre possibilità di libertà. 
Potevo ancora sperare in un futuro in cui riuscivo a raggiungere l’orizzonte. 

Ed ora?  
Ora sono al mare, da sola, e mi nascondo sotto un ombrellone. In realtà mi nascondo sempre dal sole, anche d’inverno, però d’estate tutto è messo alla luce e poche cose possono essere nascoste: mancanze personali, possibilità bruciate, responsabilità, tutto si allinea davanti a me nella versione più deprimente della paletta e del secchiello di plastica con cui giocavo da bambina. 
Cosa devo fare?  
Ho finito tutti gli esami dei miei ultimi due anni di università, devo scrivere una tesi, devo laurearmi. Devo anche andare via da Trieste, devo persino (e questo è scandaloso) capire cosa desidero dal mio futuro. 
Cosa voglio fare? 
Ci sono dei passaggi che in qualche modo ho saltato, credo, un momento di illuminazione, una rivelazione che sarebbe dovuta avvenire qualche anno fa, tre giorni fa al massimo. Eppure non c’è stato nulla, ed io sono seduta all’ombra, con nulla in mano. 

Quando avevo sedici anni ho letto molti libri che parlavano di questo preciso momento della mia esistenza: romanzi di formazione i cui protagonisti ventenni non sapevano cosa fare, con chi stare, dove andare, come affrontare la vita, se effettivamente avevano veramente voglia di affrontare la vita. Credevo di essere preparata, credevo che Banana Yoshimoto mi avesse dato le basi per affrontare il mio futuro.   Sorprendentemente non è stato così. E, in questa situazione così surreale, gli sguardi delle persone che mi circondano non sono quelli che mi sarei aspettata. Quando inizio a raccontare mi preparo a vedere occhi tristi e contrariati, amici che tentano di nasconderlo ma che in realtà provano pietà per me.  
“Non sa cosa vuole fare, che immatura!”.  
Eppure, quelli che ricevo sono cenni di assenso, sospiri simpatetici, sguardi alzati verso il cielo non per moti di stizza, ma per nascondere gli occhi umidi. Non tutti sono persi certo, ma credo che la maggior parte delle persone lo sia. Almeno un poco. Ora a vent’anni o a trent’anni, a quaranta, a cinquanta, sempre e ovunque. Quindi esco da sotto l’ombrellone e decido di lasciare che i raggi senza pietà del sole mi colpiscano la pelle, e poi inizio a camminare (e subito dopo a correre, la sabbia mi sta ustionando i piedi) verso la riva. Forse la gente anche se non lo crede vuole perdersi, deve farlo, per continuare a vivere. Quando le onde mi lambiscono fredde le caviglie un brivido mi scorre lungo la schiena, ma questo non mi ferma. Il disagio è proficuo quando lo si sa sfruttare, no? E poi come si riesce a capire se qualcosa ti fa soffrire se prima non ti fa male? Mi immergo nel mare e inizio a nuotare verso l’orizzonte, tento di essere più veloce della me bambina con i braccioli verde fluo, poco importa, a quei tempi non avevo nemmeno iniziato a fare nuoto. La verità è che non c’è una verità, solo supposizioni che posso fare su un futuro che sembra sempre fuori fuoco. A volte riesco a riconoscere i contorni di qualcosa di approssimativo, a volte è tutto troppo scuro, a volte troppo chiaro. Nel momento in cui iniziano a bruciarmi i polmoni mi fermo in mezzo al mare, mi giro e penso: “ma ci si può perdere veramente se si riesce ancora a vedere la riva?”. 

Ed ora?  
Forse perdersi è un’arte, e forse non è una cosa che possiamo veramente decidere noi. L’ora è diventato un concetto da cui non riesco a fuggire perché anche il dopo mi perseguita come un fantasma. Noi viviamo nel presente, eppure quando lo dico ad alta voce è tutto già passato. 
Cosa devo fare?  
Ho così tante idee e aspettative verso me stessa che rimango senza né una né l'altra. Le miriadi di possibilità davanti a me turbinano in un vortice di ma, e se e mai. Devo tentare di calmarmi e capire cosa devo fare per riuscire a raggiungere cosa voglio fare. 
Cosa voglio fare? 
La traduttrice, la scrittrice, l’insegnante, la fotografa. L’amica, la fidanzata, la collega, l’essere umano. Voglio avere una casa, ma viaggiare, ma fermarmi, ma avere tempo per me stessa, ma arrivare alla pensione. Fluttuo nel nulla e nel tutto, sono in un luogo che non è né orizzonte né riva, chiudo gli occhi e alzo lo sguardo verso il cielo. 
Il futuro è vicino ed il sole è ancora alto, forse posso ancora sperare di raggiungere l’orizzonte. 

 

 

 

 

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