Di eroi, di pesci grossi
Una storia che parla di di umanità, un racconto breve, una porta, che, se aperta, si apre su mondi diversi, antichi, intimi e romantici, anche se dentro c’è solo una colazione all’autogrill.
Di mio babbo ricordo soprattutto il racconto che parla di quando, nella sua adolescenza isolata di ragazzino degli anni 70 cresciuto in campagna, andava con mio nonno a pesca. La passione per la pesca è un’altra cosa che non mi spiego della vita di mio nonno, persona che non ho avuto possibilità di conoscere a lungo, ma su cui circolano storie incredibili, tra cui quella racchiusa nella medaglia che porto al collo, sul cui retro si trova scritto “Helsinki 1957, Fedi Morando” che erano le olimpiadi, che era il cognome e il nome di mio nonno, che faceva lotta greco-romana al circolo l’Etruria di San Paolo, prima periferia di Prato, dove sono nata e cresciuta. Un “uomo” ossia un “armadio a due ante” (letto, scritto, detto con la voce di mia mamma) ma senza tre dita alla mano destra a causa di una bomba durante la guerra, che la domenica prima dell’alba si svegliava prima di tutta la città, e svegliava mio babbo, per andare lontano da casa, in mezzo a un lago, a pescare.
A mio babbo non piaceva, né svegliarsi presto la domenica, né pescare, e forse nemmeno passare del tempo con mio nonno chissà, ma di quelle domeniche una cosa era quella che faceva valere la pena dell’intera giornata di sforzi: la colazione, all’autogrill, all’alba.
Tutte le volte che mio babbo arriva a questa parte, nella mia testa compare una immagine ben poco romanticizzata di come potesse essere la colazione all’autogrill, ma forse proprio lo stridore dello scenario punk dell’autogrill all’alba con il ricordo addolcito di mio babbo, rende il racconto più personale, forse intimo, forse interessante.
Mio babbo mi racconta questa storia ogni volta che ci troviamo a fare colazione presto, insieme, prima che lui vada a lavorare ed io a fare le mie cose e fuori c’è una bella giornata e lui è sereno.
Mi racconta questa storia soprattutto quando per qualche ragione la mattina in casa abbiamo delle paste calde, o qualcosa di somigliante. Perché quando Morando, mio nonno, portava Gianni, mio babbo, a pescare ma soprattutto a fare colazione all’Autogrill, Gianni, da ragazzino di campagna degli anni 70 quale era, si preoccupava solo che ci fosse il Buondì Motta. Non i cornetti, non i bomboloni, non creme pasticcere, cioccolate sciolte fumanti o crostate profumate, un semplice, plasticoso, zuccherato Buondì Motta da inzuppare in un semplice, grande, bianco bicchiere di latte caldo.
Questo era il piacere, questo era il desiderio che spingeva mio babbo ad obbedire a suo babbo, ad accasciarsi sul sedile anteriore del furgone e lasciarsi trasportare fino al lago più vicino, a inzupparsi d’acqua fredda, umidità e odore di pesce, se andava bene, sennò solo di umidità e di freddo.
Inzuppare il Buondì Motta nel bicchiere di latte, e vedere il liquido ritirarsi e venire assorbito, dimezzandosi nel suo contenitore. È questa parte del racconto preferita di mio babbo, il ricordo del latte che si assorbe e se ne va, rimane sempre uguale, è l’obiettivo dell’intera narrazione, il culmine ed anche la conclusione.
Ogni tanto ci ripenso, quando la mattina mi sveglio e fuori è una bella giornata, anche se ora faccio fatica ad alzarmi tanto presto come quando mi trovavo a fare colazione con mio babbo, perché mentre lui deve andare al lavoro, io solamente a fare le mie cose.
E anche se mio babbo non è mai stato un gran malinconico, o un gran canta storie, o comunque uno che si fermasse un attimo a riflettere sulle sue radici, e forse proprio per questa serie di motivi, quando mi racconta del Buondì Motta io mi ritrovo a pensare a come ognuno di noi, anche nelle persone più improbabili, anche in quelle meno sensibili, per una serie di eventi ogni tanto esca una parte di noi che fa dei propri sentimenti un insegnamento di umanità, un racconto breve, una porta, che, se aperta, si apre su mondi diversi, antichi, intimi e romantici, anche se dentro c’è solo una colazione all’autogrill, come in un racconto dentro al film Big Fish di Tim Burton (che ho appena visto e che forse è stato il casus belli di questo racconto, e forse forse uno dei miei nuovi film preferiti).
Ed io, vi ritrovo un po’ le mie radici.